Capire male la gente

Passiamo la vita cercando di capire le persone, convinti che sia la chiave per far funzionare tutto: le relazioni, il lavoro, ogni singolo giorno. Pensiamo che se riuscissimo a decifrare l’altro, a entrare nella sua testa, tutto avrebbe più senso. Ma più ci proviamo, più falliamo – e in quel fallimento c’è qualcosa di crudelmente onesto. Perché la verità è che la vita non è capire. È sbagliare, e poi sbagliare ancora. È inseguire una comprensione che non arriva mai.

Roth ci ha preso in pieno: capire male è vivere. Perché quando ci fissiamo sull’idea di dover capire tutto, finiamo per soffocare ciò che rende le relazioni vere: l’imprevisto, il disordine, l’imperfezione. Ci fissiamo sull’altro come un problema da risolvere, e nel farlo perdiamo il contatto, la connessione reale. Ci perdiamo l’un l’altro, inseguendo una risposta che non esiste.

E lo stesso vale per il lavoro. Con i clienti, i colleghi, ci illudiamo che il nostro compito sia capirli a fondo, anticipare ogni loro bisogno. Ma così facendo, ci trasformiamo in macchine, smettiamo di vedere l’umanità che c’è dietro. Forse dovremmo smetterla di voler capire tutto e imparare a viaggiare insieme. Non per forza per risolvere, non per forza per analizzare, ma semplicemente per essere lì, presenti.

La vita non è un’equazione da risolvere, è una gita, piena di curve, bivi e deviazioni – con il navigatore rotto. E se riusciamo a lasciar perdere l’ossessione di dover avere sempre ragione, forse riusciremo anche a goderci la corsa.

Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati.

Philip Roth, Pastorale Americana (Einaudi 2013 – Traduzione di Vincenzo Mantovani)

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