Fino a poco tempo fa, quando sentivo parlare della scrittura come cura mi veniva l’orticaria. Mi sembrava un’esagerazione di molti scrittori per darsi un tono e conferire al proprio operato un valore maggiore che, forse, loro stessi per primi non riconoscevano.
Chi mi conosce lo sa: non sono un tipo per niente new age, né tantomeno metafisico, né particolarmente ascetico o astrattismi del genere. Sono una persona molto ancorata alla concretezza dei fatti e poco incline a iperboli all’italiana, per cui, ecco, la terapia dello scrivere mi è sempre sembrata un’esagerazione.
O almeno così era fino a poco tempo fa, perché alla fine mi sono dovuto, in parte, ricredere e iniziare ad accettare il fatto che sì, la scrittura può essere anche terapeutica – a suo modo.
Sto vivendo un periodo abbastanza impegnativo e capita troppo spesso che mi trovi a rodermi il fegato per questa o quell’altra cosa. Di solito il mio approccio ai periodi no è di stampo aristotelico-confuciano:
Se c’è una soluzione perché ti preoccupi? Se non c’è una soluzione perché ti preoccupi?
(Aristotele/Confucio)
Ultimamente, però, la bellissima razionalità di questo aforisma non è sufficiente a mantenermi lucido e distaccato, per cui sono dovuto ricorrere ad altro.
Mi sono accorto che, il più delle volte, sfogavo in modo sbagliato le mie emozioni negative e questo portava a delle reazioni altrettanto negative, che suscitavano in me nuove emozioni negative, che continuavo a sfogare male e che quindi generavo nuove reazioni negative e via dicendo. Un cane che si morde la coda, insomma.
Mi fa strano dirlo, ma a mantenere la lucidità mi ha aiutato la scrittura. Davanti a un qualunque avvenimento che potrebbe far scattare questa reazione a catena di negatività, prima di dare sfogo a tutta la mia reattanza, mi metto a scrivere quello che è successo: cerco di farlo con calma, sfidando me stesso a scrivere senza l’emotività del momento, scegliendo le parole giuste per essere il più distaccato possibile; decontestualizzo i fatti per renderli universali e mi impegno a trovare una regola (pseudo antropologica, pseudo scientifica, pseudo sociologica, pseudo linguistica) che li inquadri e li giustifichi – o li condanni; cerco di buttarla sul grottesco.
Questo è quanto di più vicino alla scrittura terapeutica riesco a concepire.
È un modo per prendermi del tempo e analizzare quanto accaduto, vincendo la mia pigrizia mentale che mi porterebbe a distogliere il pensiero dopo pochi minuti. Mi aiuta a rimanere lucido, distaccato e obbiettivo.
Quando poi rileggo quello che ho scritto, spesso mi sembra tutto talmente stupido che non vale più la pena stare lì a rodersi il fegato.
Con me funziona così: solo se riesco a vedere dall’esterno quello che accade, solo se riesco a non farmi travolgere dall’emotività del momento, riesco a rimanere calmo e presente a te stesso e a non provocare valanghe di negatività su negatività.
Questo è il massimo che posso accettare quando si parla di scrittura come terapia, ed è già tanto. Ma vi posso assicurare che è già qualcosa – e funziona.