Per quanto possa sembrare eretico, la lunghezza di un libro conta quasi più del suo contenuto.
A questo proposito, una volta, un editore mi disse che i libri piccoli vendono meno. Me lo disse mentre ragionavamo su come la brevità penalizzi la commerciabilità (e quindi la diffusione) di certi libri.
Io obiettai citando i casi di Erri De Luca, l’Ivan Il’ič di Tolstoj, Una storia semplice di Sciascia, La caduta di Camus, La metamorfosi di Kafka, Le notti bianche di Dostoevskij. E forse qualcun altro che adesso non ricordo.
Lui mi rispose solo: «Lascia perdere».
Il succo del discorso era questo: se ti presenti, oggi, da esordiente o emergente che sia, a un critico o a un editore con un testo breve, diciamo meno di meno di cento-centoventi-centocinquanta-duecento pagine, quello già storce il naso; perché, alla fine, un libro voluminoso fa sempre la sua porca figura. A prescindere dalla bontà del contenuto.
Diciamo quindi che si può parlare a tutti gli effetti di libri di un certo spessore – inteso in primo luogo in senso fisico e, solo dopo, in senso contenutistico.
Quindi, riassumendo: la lunghezza di un libro conta molto, moltissimo. Almeno finché non raggiungi una certa notorietà che ti permette di fregartene e di pubblicare (più o meno) quello che vuoi.
(Piccola incursione nella mia libreria. A casa ho un libricino molto carino di Vincenzo Costantino — tutto in -ino —, di 72 pagine, 9×14 cm circa, intitolato Non sembra neanche dicembre. Storie di Natale che ho posizionato proprio a fianco a Infinite Jest di David Foster Wallace, 1296 pagine, 13×20 cm circa – che sono, rispettivamente, il libro più piccolo e quello più grande che abbia mai posseduto).
Ad ogni modo, per quanto estremamente cinica e pragmatica, l’osservazione di quell’editore non era priva di fondamento. Pensateci bene, onestamente. Cosa vi attira di più, un libricino di un centinaio di pagine o un tomo di cinque-seicento e più pagine?
Siate sinceri.