Possiamo stare anni e anni a studiare tutti i cavilli e le minuzie della grammatica, possiamo seguire tutti i corsi di scrittura creativa, copywriting e storytelling che vogliamo, possiamo diventare i massimi esperti di analisi testuale e dinamica dei testi estetici, ma la verità è una: se in quello che scriviamo non ci mettiamo noi stessi, la narrazione non funziona. Avremo prodotto il testo meglio scritto della storia della pubblicità o della letteratura mondiale, ma risulterà sempre freddo, asettico, costruito. Per questo è indispensabile una non indifferente quantità di umanità in quello che scriviamo.
Attenzione, non sto dicendo che la tecnica debba andare a farsi benedire, tutt’altro.
Immaginiamo la scrittura come un enorme edificio: la correttezza grammaticale rappresenta le fondamenta, poi ci sono le mura, rappresentate dalla conoscenza dei meccanismi di narrazione, e il tetto, che potremmo identificare con la coerenza semantica. L’edificio è completo anche così; ma c’è ancora qualcosa che può essere aggiunto per aumentarne il valore e far sì che streghi gli occhi e il cuore di tutti i passanti: bisogna abbellirlo, personalizzarlo, aggiungere vernice, giardini, piante… ecco, è questa la funzione che svolge la componente umana all’interno di un testo.
Ok, magari il paragone non è proprio dei più freschi, lo ammetto, ma il concetto è lo stesso: in quello che scriviamo dobbiamo metterci noi stessi. Perché la tecnica è sempre uguale, ma la nostra umanità è varia e variabile.
La scrittura è un’operazione che deve coinvolgere cervello, mani e pancia (non cuore, pancia). È questo l’unico modo per innescare risposte emotive in chi legge.