Stephen King: una vita votata alla scrittura, una castagna alla volta. Sempre con perseveranza, talento e consapevolezza. Mai alla cieca.
Attaccato dalla critica, amato dal pubblico, venerato dalla macchina editoriale: Stephen King è uno dei più celebri e discussi autori in circolazione dalla metà degli anni Settanta a oggi – lo dico per quelli che vivono fuori dal mondo. Uno scrittore tra i più prolifici del suo tempo e, sicuramente, uno dei più sottostimati (il Times lo definì il «maestro della prosa post-alfabetizzata» e Arold Bloom, il principe dei critici letterari, lo stroncò come «il male assoluto […] c’è poco tempo, perché sprecarlo con questa spazzatura?»). Eppure Stephen King, dal 1974 (anno di pubblicazione del suo primo romanzo, Carrie) è ancora lì, curvo sullo scrittoio a scrivere le sue storie e alimentare i nostri incubi.
Chi è Stephen King
Non ho intenzione di lanciarmi in un’esegesi della vita di Stephen King, tranquilli – per quello c’è Wikipedia. Né tantomeno ho voglia di mettermi qui a inanellare una parola dietro l’altra per stabilire se Stephen King sia o meno un grande scrittore. Non mi interessa.
Quello che mi interessa è la gradazione ascendente, la climax, della sua carriera – in barba alla povertà, in barba alle dipendenze, in barba alla critica. In culo a tutto e a tutti.
Nasce da una famiglia povera (ma dignitosa), non ha una figura paterna al suo fianco (ma ha una madre che si faceva in quattro per garantire una buona educazione ai figli), non ha neanche una gran salute e, come se non bastasse, assiste alla morte di un suo amico… tutto questo in soli quattro anni di vita – poi uno dice la sfiga. Senza dimenticare i problemi di alcool e droghe che lo hanno ridotto a scrivere «con il cuore che toccava i centotrenta battiti al minuto e un paio di cotton fioc infilati nel naso per tamponare l’emorragia provocata dalla cocaina», come lui stesso racconterà.
Ecco, nonostante questo popò di premesse, è riuscito ad andare avanti, sempre più avanti – finché, a quasi 52 anni, non è stato tirato sotto da un minivan Dodge blu, con conseguente perforazione di un polmone, frattura di gamba-ginocchio-anca, lesione della colonna vertebrale, lacerazione del cuoio capelluto e quattro costole spezzate. E anche qui, cosa fa il buon Stephen King? Non si arrende e si rimette in sesto: guarisce e si rimette a scrivere. Fino ad allora aveva dato alle stampe più di venti romanzi. Da lì in poi ne sfornerà altri diciassette. Senza contare racconti, saggi e collaborazioni varie. Un mostro.
L’arte della perseveranza
Adesso Stephen King è uno degli scrittori più conosciuti al mondo, con più di cinquanta romanzi pubblicati e oltre trecentomila copie vendute. Eppure il suo primo romanzo era stato rifiutato qualcosa come trenta volte e lui era lì lì per mollare tutto e dedicarsi esclusivamente alla bottiglia e alla cocaina. Ma, per non tradire il detto “Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna”, ecco che nel 1969 arriva Tabitha Jane Spruce, sua futura moglie, che lo prende per mano e lo sprona a insistere, finché Carrie non viene acquistato da una casa editrice e, in breve tempo, ottiene un successo clamoroso e supera un milione di copie vendute – permettendo a King di abbandonare il lavoro e dedicarsi a tempo pieno alla scrittura («Scrivere è un’occupazione solitaria. Avere qualcuno che crede in te fa una grande differenza»).
Ecco, allora, che la scrittura diventa un lavoro, e come un lavoro va affrontata con serietà:
«Potete avvicinarvi all’atto dello scrivere con nervosismo, eccitazione, speranza, o anche disperazione, la sensazione cioè che non riuscirete mai a mettere sulla pagina quello che avete nella mente e nel cuore. Potete avvicinarvi a quell’atto con i pugni chiusi e gli occhi stretti, pronti a menare e a prendere nota dei nomi. Potete mettervici perché volete farvi sposare da una certa ragazza o perché volete cambiare il mondo. Mettetevici in qualsiasi modo, ma non alla leggera. Lasciatemelo ripetere: non dovete affrontare alla leggera la pagina bianca. Non vi chiedo di affrontarla con timore riverenziale o senza dubbi; non vi chiedo di essere politicamente corretti o accantonare il vostro senso dell’umorismo (pregate Iddio di averne uno). Questa non è una gara di popolarità, non sono i giochi olimpici della morale, non siamo in chiesa. Ma si tratta di scrivere, dannazione, non lavare la macchina o mettersi l’eyeliner. Se sapete prenderlo sul serio, abbiamo da fare insieme. Se non potete o volete, è ora che chiudiate il libro e vi dedichiate a qualcos’altro»
Con serietà e perseveranza:
«Avevo l’abitudine di dire agli intervistatori che scrivevo tutti i giorni eccetto Natale, il Quattro Luglio, e il giorno del mio compleanno. La verità è che quando scrivo, scrivo tutti i giorni, fanatico o no. Ciò significa anche il giorno di Natale, il Quattro Luglio, e il giorno del mio compleanno»
Le castagne messe da parte
Scrivere, scrivere sempre, ogni giorno per adempiere al proprio dovere di scrittore e non farsi trovare impreparati. Sì, perché un blocco può venire a chiunque, anche a Stephen King. E se hai fatto della scrittura il tuo mestiere, non puoi permetterti passi falsi. Non puoi farlo per i lettori, non puoi farlo per la tua casa editrice. E allora? Allora si ricorre alla tecnica delle «castagne messe da parte». Vado a spiegare.
Si tratta di una tecnica che ci viene suggerita dallo stesso King nel suo romanzo Mucchio d’ossa, forse il più autobiografico di tutti. Il libro parla di uno scrittore che non riesce più a scrivere, ma che riesce comunque a dare alle stampe nuovi romanzi – grazie «all’utilizzo delle castagne messe da parte». Si tratta di scrivere sempre, ogni giorno, andando al di là dell’unità di misura di un romanzo: hai finito di scriverne uno? Bene, iniziane un altro – così da avere più di un romanzo l’anno e poter sopperire ai periodi di crisi creativa. Romanzi messi da parte come castagne, insomma.
È una tecnica che potrebbe far storcere il naso a molti critici e puristi della letteratura, perché avvicina la scrittura alla produzione di massa e la spoglia della sua dimensione artistica e creativa. Ma chi se ne frega? Quando fai della tua passione un lavoro, non puoi più trattarla come una passione. Sì, lo so, è un po’ contorto. Provo a semplificare: devi vivere della tua passione.
E per vivere della tua passione, devi dedicarti a essa ogni giorno, con costanza, serietà e perseveranza.
Un mucchio d’ossa che ce l’ha fatta
La climax che cavalca la vita di Stephen King ci dimostra come le difficoltà possano essere prese a calci nel culo e superate.
Stephen King è un mucchio d’ossa che ce l’ha fatta; ma attenzione: non ce l’ha fatta solo perché ha insistito ciecamente. Ce l’ha fatta perché aveva del talento, e aveva la consapevolezza del suo talento e lo ha coltivato ogni giorno e ne ha raccolto i frutti.
«Sebbene sia impossibile estrarre uno scrittore competente da un cattivo scrittore, e sia ugualmente impossibile tirar fuori un grande scrittore da uno bravo, è invece possibile, con molto duro lavoro, dedizione e aiuti tempestivi, trasformare in bravo uno scrittore che è solo competente»
Finora abbiamo parlato di perseveranza, costanza e serietà. Aggiungiamo un’altra parola: consapevolezza. Dei propri mezzi, del proprio talento e dei propri limiti. Perché sì, è vero, la goccia scava la roccia. Ma affinché questo avvenga, a volte, non basta una vita intera – e se la goccia cambiasse obiettivo, imparando a conoscersi, che ne so, magari riempire un catino, farebbe prima e meglio. E sarebbe felice.
«[Scrivere] è soprattutto un modo per arricchire la vita di coloro che leggeranno i tuoi lavori e arricchire al contempo la propria. Scrivere è tirarsi su, mettersi a posto e stare bene. Darsi felicità, va bene? Darsi felicità»