Libro dopo libro, Chuck Palahniuk si è incartato nel suo stesso stile

Chuck Palahniuk è uno dei miei scrittori preferiti. O meglio: lo è stato. Anzi no: lo è ancora.

La verità è che non lo so.

Ammetto di non aver letto ancora tutti i suoi diciassette romanzi, ma una buona metà sì.

Sono partito spedito:

Poi mi sono fermato, perché di libro in libro c’era qualcosa che non mi tornava.

Dopo una lunga pausa ho preso tra le mani Senza veli.

Poi di nuovo una lunga pausa. Finché non ho comprato il suo ultimissimo romanzo: L’invenzione del suono.

Ma non sono riuscito a scrollarmi di dosso quella sensazione strana, come di una leggera presa in giro strisciante. Perché, di libro in libro, è come se lo stile di Chuck Palahniuk, così scientifico e crudo da rasentare il grottesco, quello stile che enfatizza le parole per far esplodere le frasi, diventasse ridondante. La sua scrittura, priva di avverbi e altre particelle che rallentano il ritmo del periodo, fosse diventata frettolosa. Le interruzioni, le ripetizioni a effetto, le battute drastiche e fredde, fossero diventate escamotage per riprendere le fila di un discorso ormai perso: quando non sai come finire la frase, zac!, battuta, interruzione, ripetizione.

Di libro in libro, è come se suo stile, così asciutto e innovativo, fosse diventato noioso. Il suo nichilismo, banale.

Di libro in libro, l’utilizzo estremo che fa del flashback come struttura della narrazione diventa un trucchetto per mascherare l’incapacità di governare una trama.

Di libro in libro mi sono accorto che in tutte le storie c’è un punto preciso in cui tutto sembra deragliare. Arriva un momento in cui, da un pagina all’altra, tutto inizia a correre a rotolare a valanga, tutto inizia a sfaldarsi, come se un editor spietato avesse strappato via un intero capitolo. All’improvviso, il tempo di voltare pagina ed è come quando ti addormenti in autobus: sai da dove sei partito e sai dove sei arrivato, ma non hai la minima idea di come ci sei arrivatә. Intuisci qualcosa, ma non è davvero sufficiente per appagarti realmente del viaggio.

E, poi, soprattutto, credo abbia un serio problema con i finali. Sono quasi tutti discutibili. Sono frettolosi, abborracciati, spesso per niente in linea con la storia, alla ricerca ossessiva di un colpo a effetto che ti lasci a bocca aperta, eccessivamente eccessivi. Sembra sempre tutto forzato. È come se Palahniuk non riuscisse a staccarsi dal suo raccontare e, arrivato ormai al punto in cui l’editore ti sta con il fiato sul collo perché devi finire quel dannato libro, lui lo chiude così, senza pensarci due volte. Brutalmente. Non importa a che punto della trama si trovi: se il libro deve finire, finisce e amen.

Ciononostante, amici miei, credo ancora che Chuck Palahniuk sia uno degli scrittori americani più interessanti nel panorama contemporaneo, anche se spesso mi fa incazzare, anche se si è dato in pasto a quello stesso sistema che lui per primo condanna: è ancora, dannatamente, interessante.

Spesso ho pensato di non comprare più i suoi libri (che sono sempre di più), ma alla fine, che ci posso fare, mi manca. E devo leggerlo. Anche se so che mi incazzerò tantissimo a fine libro.

Si dice che Chuck Palahniuk o lo si ami o lo si odi. Non è vero: in me prevalgono entrambi i sentimenti. Ed è questa la sua forza: l’amore e l’odio che suscitano al contempo i suoi libri.

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