Spoiler: non finisce.
Ci sono domande che non si esauriscono in una risposta. Sono quelle che si portano dietro la dignità dell’interrogarsi. “Dove finisce la responsabilità della pubblicità?” è una di queste.
Perché la pubblicità non è (solo) ciò che vediamo tra una storia Instagram e l’altra, né quello spot da 6 secondi che ci strappa un sorriso prima del prossimo click. La pubblicità è, da sempre, un dispositivo narrativo che abita le nostre vite. Le arreda. Le modella. Le orienta. Spesso senza che ce ne accorgiamo. Ed è in questo silenzioso lavoro di penetrazione culturale che si annida il cuore della sua responsabilità.
Ma proviamo a mettere ordine.
La pubblicità non è neutra. Mai.
Una volta c’era il manifesto murale. Poi la réclame. Poi la televisione generalista. E oggi? Oggi la pubblicità ci guarda negli occhi da ogni pixel disponibile. Ci rincorre nei feed, si mimetizza nei contenuti, ci ascolta attraverso le parole che pronunciamo (e anche quelle che solo pensiamo). Eppure, nonostante questa invasività onnipresente, continua a vivere nel mito della “neutralità”.
«È solo comunicazione commerciale», si sente ancora dire. Come se la finalità di vendere autorizzasse qualsiasi scorciatoia semantica. Come se il fatto di essere pagati per parlare bene di qualcosa annullasse automaticamente il dovere di farlo in modo etico.
Ma la verità è che ogni messaggio veicola un valore. Ogni scelta creativa costruisce un immaginario. E ogni brand che comunica occupa spazio mentale. Quindi no, la pubblicità non è neutra. Mai. E se non è neutra, allora è responsabile. Sempre.
Siamo figli di un immaginario pubblicitario.
Pensiamo all’immaginario della bellezza. Quanti corpi perfetti, levigati, normati, ci hanno cresciuto negli spot degli anni ’90? Quante donne sorridenti con lo straccio in mano? Quanti uomini incapaci di cucinare un uovo?
Per decenni la pubblicità ha contribuito a costruire stereotipi con una forza superiore a qualsiasi programma scolastico. Ha educato (o diseducato) generazioni con un’efficacia pedagogica impressionante. Ha normalizzato modelli, relazioni, desideri.
E se oggi, finalmente, cominciamo a vedere famiglie non convenzionali, corpi non perfetti, generi fluidi e identità complesse anche negli spot dei grandi marchi, non possiamo dimenticare quanto tempo ci è voluto. Quante lotte. Quanti silenzi da scontare.
Non basta cavalcare i temi sociali quando fanno trend. Serve coerenza. Serve visione. Serve responsabilità.
Il rischio dell’opportunismo etico.
L’“ethical washing” è una malattia endemica del nostro tempo. Le aziende si affrettano a colorare il proprio logo con l’arcobaleno a giugno, a indossare la maglietta contro la violenza sulle donne il 25 novembre, a parlare di sostenibilità con campagne patinate mentre delocalizzano la produzione in Paesi senza tutele ambientali né diritti umani.
E la pubblicità? La pubblicità spesso si presta. Anzi, si traveste. Ruba linguaggi e cause per trasformarle in posizionamenti di marca. Ma l’etica non è una palette da branding. Non è un tone of voice da mettere in campo quando conviene.
L’etica, se c’è, è sempre. È struttura, non superficie. È scelta radicale, non maquillage narrativo.
Pubblicità e algoritmi: la questione del consenso.
Oggi il problema della responsabilità si gioca anche (e forse soprattutto) sul campo invisibile dell’infrastruttura. Siamo entrati in un’epoca in cui non è più la creatività a governare la pubblicità, ma la profilazione.
Sappiamo tutto delle persone. Dove vivono, cosa cliccano, quanto tempo restano su un post, che musica ascoltano quando sono tristi. E allora le campagne non si creano più per ispirare, ma per convertire. Non si raccontano più storie, ma si costruiscono funnel.
In questo scenario, la pubblicità è diventata una forma sofisticata di sorveglianza. E il consenso? Spesso è un’illusione. Un “accetta tutto” distratto. Una tracciatura silenziosa.
Qui la responsabilità non è solo creativa, ma politica. La pubblicità moderna ha il potere (e il dovere) di interrogarsi sulle regole del gioco in cui si muove. Ha il dovere di restituire agency alle persone. Di rispettare il loro tempo, la loro attenzione, la loro libertà.
Dove comincia davvero la responsabilità della pubblicità?
Comincia quando smette di guardare solo ai KPI. Quando il ROI non è l’unica misura di successo. Quando un’agenzia ha il coraggio di dire a un cliente: “Questa cosa qui non si fa, anche se funziona.”
Comincia quando si torna a considerare la pubblicità come un linguaggio che abita il reale, non solo il mercato.
Un tempo parlavamo di “creativi”. E la parola aveva un senso nobile. Eravamo, o volevamo essere m, architetti di senso, non solo artigiani dell’attenzione. Ecco, quella responsabilità lì non è mai finita. È solo diventata più complessa.
Etica non significa censura.
Chiariamolo: essere etici non significa essere noiosi. Non vuol dire fare pubblicità buonista, moraleggiante, pettinata. Anzi. L’etica, se è davvero creativa, sa essere dirompente. Sa disturbare. Sa far pensare.
C’è più etica in uno spot che mette in discussione i pregiudizi che in cento campagne politically correct.
Essere etici oggi significa accettare la sfida di usare la pubblicità per porre domande, non solo per dare risposte. Significa usare il potere dell’immaginario per aprire possibilità, non per chiuderle in cliché.
Il ruolo sociale della pubblicità
La pubblicità è ovunque. Parla a tutti. Nessun’altra forma di comunicazione ha lo stesso raggio d’azione. Questo non la rende solo influente, ma anche capace di incidere nel profondo.
E allora proviamo a vederla per quello che può essere: un’industria culturale. Un’arte applicata. Un luogo di trasformazione.
La pubblicità può costruire ponti tra generazioni. Può dare voce a chi non l’ha mai avuta. Può contribuire a cambiare il linguaggio, e quindi il pensiero. Può riscrivere le regole del gioco.
Ma solo se chi la fa smette di pensarsi come “venditore” e ricomincia a pensarsi come “autore”.
Ma allora, dove finisce la responsabilità della pubblicità?
Forse la risposta più onesta è questa: non finisce mai.
Perché ogni messaggio che emettiamo, ogni immagine che scegliamo, ogni parola che affidiamo a uno spot, a un post, a una caption, lascia una traccia. Modella la cultura. Agisce nel mondo.
E chi agisce nel mondo ha una responsabilità. Sempre.
Ecco perché la vera sfida per chi oggi fa pubblicità non è tanto vendere un prodotto, ma guadagnarsi la fiducia. Non è solo raggiungere il target, ma meritarselo.
E questa, a ben vedere, è la più bella delle responsabilità.