Può una macchina capire cosa ci emoziona?

Un interrogativo sulla capacità dell’intelligenza artificiale di comprendere e riprodurre le emozioni umane.


Immagina una stanza vuota. Illuminata solo dallo schermo di un computer.

Davanti a te, un volto digitale ti guarda. Sorride. Ti parla. Usa il tono giusto. Fa una pausa dove serve. Ti ascolta, sembra capirti. E tu, quasi senza accorgertene, inizi a crederci: a quel sorriso, a quella voce, a quella presenza simulata.

Succede ogni giorno.

Con un chatbot. Con un assistente vocale. Con una pubblicità online che ci arriva nel momento esatto in cui avevamo bisogno di sentirci visti.

Ed è qui che la domanda inizia a prendere forma: può una macchina capire cosa ci emoziona?

O meglio: cosa stiamo diventando, se abbiamo bisogno che una macchina ci capisca?

Emozione, cultura, corpo

Le emozioni, a guardarle bene, non sono solo reazioni chimiche o impulsi cerebrali.

Sono trame culturali, storie incarnate, rituali sociali.

Ogni gesto emotivo è radicato in un contesto: un’abitudine, una memoria, una lingua, una collettività che gli dà senso.

L’antropologia lo sa da sempre. L’emozione non è una moneta universale. Quello che per un bambino europeo è un pianto, altrove può essere silenzio. La vergogna, in alcune culture, si manifesta abbassando lo sguardo; in altre si trasforma in aggressività. La gioia può essere contenuta o esplosiva, secondo i codici appresi.

Paul Ekman ha provato a ridurre tutto a sei emozioni “universali”, ma l’umanità è molto più sfaccettata. Le emozioni sono collettive e situate, non solo personali. Sono il risultato di un intreccio tra biologia e simboli.

L’IA, al contrario, parte dal dato.

Analizza miliardi di volti, traccia curve emotive, costruisce modelli predittivi. Impara a “leggere” l’emozione così come le abbiamo insegnato a rappresentarla: in faccine, emoji, esclamazioni. Ma non ha un corpo che trema, una pelle che si accappona, una memoria che lacrima. Non ha vissuto il dolore. Non ha provato la perdita.

Non ha mai pianto davvero.

La pubblicità come macchina dell’emozione

Nel mondo della comunicazione, l’emozione è una leva antica.

Dove non arriva la ragione, arriva la pancia.

Funziona da sempre: per vendere, per persuadere, per orientare le scelte.

La pubblicità è un’industria dell’emozione.

Ma oggi, con l’IA, la posta in gioco si è alzata.

Le campagne non parlano più a “target” indistinti.

Parlano a te, nel momento in cui stai attraversando una crisi, una gioia, una vulnerabilità. L’algoritmo ti osserva, ti conosce, ti intercetta.

Ti suggerisce una crema per il viso mentre piangi, una canzone triste quando sei solo, un messaggio motivazionale alle 7 del mattino.

E funziona. Perché il tempismo dell’IA è perfetto.

Ma la perfezione non è autenticità. È efficacia, non verità.

L’intelligenza artificiale ottimizza le emozioni.

Le codifica in KPI. Le trasforma in contenuti performanti.

Nella pubblicità, abbiamo accettato questa logica: l’emozione profilata.

Ma cosa stiamo perdendo in cambio?

Algoritmi e rituali digitali

Un tempo c’erano i riti collettivi: il teatro, il funerale, la veglia, il concerto.

Oggi ci sono le storie su Instagram, i video su TikTok, le reazioni di LinkedIn.

Sono nuovi rituali emozionali, condivisi ma solitari, standardizzati da piattaforme che si fingono neutre.

E proprio come accade nei riti tradizionali, anche nel digitale l’emozione è codificata, appresa, mimata. Ma con una differenza: chi decide il codice, oggi, non è una comunità, ma un algoritmo.

Siamo passati dalla condivisione dell’emozione alla sua programmazione.

Un’interfaccia decide cosa vedrai, con che tono, in quale momento della giornata.

E se non ti emozioni, il sistema si corregge. Aggiusta. Migliora.

Finché non reagisci. Finché non clicchi.

Finché non sembri umano.

Creatività e responsabilità

C’è un rischio concreto, e lo sappiamo: quello di diventare prevedibili come le macchine che costruiamo.

Se la creatività si limita a seguire i dati, se il copywriting si riduce a prompt per un generatore automatico, se l’emozione è solo ciò che converte, stiamo sterilizzando il potenziale trasformativo della comunicazione.

Ma c’è anche una possibilità.

Una via diversa.

Possiamo usare l’IA non per simulare l’umano, ma per interrogarlo.

Possiamo costruire campagne che non si accontentano di suscitare emozioni facili, ma che lasciano spazio all’ambiguità, al dubbio, alla contraddizione.

Possiamo usare i dati non per manipolare, ma per ascoltare meglio.

E poi, con tutto ciò che abbiamo imparato, scrivere qualcosa che l’algoritmo non sa prevedere.

Qualcosa che sorprenda anche noi.

La libertà di emozionarsi davvero

Se chiediamo a una macchina di capire cosa ci emoziona, le stiamo chiedendo troppo.

Non perché non possa riuscirci tecnicamente, ma perché quel che ci emoziona davvero, spesso, non lo capiamo nemmeno noi.

È un odore improvviso, un silenzio pieno, un dettaglio fuori posto.

L’intelligenza artificiale può imitarci. Può analizzarci. Può persino commuoverci.

Ma non potrà mai decidere, davvero, cosa ci riguarda fino in fondo.

Perché ciò che ci tocca non è sempre ciò che funziona.

Ciò che ci salva, spesso, è proprio quello che non serve a niente.

La pubblicità – la comunicazione tutta – ha davanti a sé una scelta: farsi arte della profilazione, oppure farsi spazio di libertà emotiva.

E la libertà non si ottiene accontentando i gusti, ma scomodando le coscienze.

Se c’è ancora una cosa che l’umano può insegnare alla macchina, è questa: che emozionarsi non è una funzione, è un atto di resistenza.