La pubblicità non vende solo prodotti, ma crea mondi possibili. Ogni storia che raccontiamo ridefinisce aspettative e desideri. Il confine tra riflettere la realtà e trasformarla è sottile, ed è lì che la creatività trova il suo potere più grande.
Ideare, scrivere, fare pubblicità non è solo un mestiere, è un atto di responsabilità. Ogni parola, ogni immagine che scegliamo di mettere in circolo ha un peso, un impatto, un’eco.
La pubblicità non si limita a vendere prodotti, si insinua nelle pieghe della società, si intreccia con la cultura e plasma l’immaginario collettivo. Ma la domanda è: stiamo riflettendo la realtà o la stiamo distorcendo? La nostra professione (ideare, scrivere, fare pubblicità) gioca su questa linea sottile e spesso sfuggente.
Non sto qui a demonizzare questo lavoro, anzi. Sto qui per capire come può essere usato per costruire una relazione più autentica con chi ci ascolta, evitando di cadere nella trappola di manipolare le aspettative e i desideri. È questo che ci rende creativi, no? La capacità di immaginare un mondo diverso senza perdere il contatto con quello che c’è.
C’è una cosa, però, che va detta: la pubblicità non crea dal nulla. Noi (che ideiamo, scriviamo, facciamo pubblicità) non inventiamo i desideri, li intercettiamo. Siamo sensori in un sistema complesso. Le persone vogliono essere ascoltate, capite, rappresentate. E noi rispondiamo, cercando di restituire loro un’immagine che le faccia sentire parte di qualcosa. Quando pubblicizziamo un prodotto, stiamo offrendo un simbolo, un segno che va oltre il mero consumo. Un’auto non è solo un mezzo di trasporto: è il riflesso di una vita, di uno status, di un’identità.
Ma attenzione: quello che riflettiamo non è la realtà così com’è. È la realtà come potrebbe essere. La pubblicità è sempre aspirazionale, è un gioco tra il qui e l’ora e il là e il poi. E in questo gioco, se fatto bene, c’è tutta la nostra arte. Non stiamo distorcendo, stiamo aprendo finestre su possibilità. Non è un inganno, è una promessa.
Potremmo dire che siamo degli anticipatori. Non ci limitiamo a rispondere a ciò che già esiste, ma intravediamo i bisogni che stanno per nascere. Penso agli smartphone: prima che diventassero indispensabili, la pubblicità ha svolto un ruolo chiave nel farci immaginare come sarebbe stata la vita connessa, portatile, veloce. Non ha creato un bisogno artificiale; ha accelerato un processo che era già in corso.
La differenza è sottile ma importante: anticipare non significa manipolare. Quando creiamo una campagna, non costruiamo desideri dal nulla, ma diamo forma e voce a una domanda latente. La vera sfida sta nel farlo con autenticità, senza forzature. Ed è qui che entra in gioco la nostra responsabilità. La pubblicità non è un gioco di prestigio: non si tratta di illudere, ma di sintonizzarsi sulle frequenze giuste, su ciò che le persone sentono dentro, anche se ancora non lo sanno.
Tuttavia, è innegabile che questo lavoro può avere un lato oscuro. Quando ci spingiamo troppo oltre, quando idealizziamo a tal punto da rendere irraggiungibile ciò che proponiamo, rischiamo di distorcere la realtà. Pensiamo ai modelli di bellezza che continuiamo a proporre: corpi scolpiti, vite perfette, sorrisi impeccabili. A chi stiamo parlando davvero? E che cosa stiamo chiedendo a chi ci guarda?
La pubblicità ha il potere di creare mondi, sì, ma se quei mondi sono troppo lontani dalla vita reale, rischiamo di generare frustrazione, inadeguatezza, alienazione. Non stiamo solo vendendo prodotti, stiamo vendendo sogni. E quei sogni devono essere ancorati a qualcosa di vero, di raggiungibile. Il nostro compito è trovare un equilibrio tra ciò che ispira e ciò che è autentico, senza cadere nella trappola di una narrazione irrealistica.
La pubblicità può essere molto più di uno specchio deformante. Può essere uno strumento di cambiamento sociale, un mezzo per portare avanti battaglie culturali. Il nostro lavoro può andare oltre il profitto e abbracciare una causa più grande, una visione più etica.
Non siamo semplici venditori: siamo narratori. E oggi, più che mai, le persone cercano storie vere, con radici profonde. Non vogliono essere ingannate, vogliono essere coinvolte. Vogliono sentirsi parte di un movimento, di una comunità. E noi, come ideatori, scrittori, produttori di pubblicità, possiamo farlo. Non dobbiamo solo riflettere la realtà, possiamo contribuire a migliorarla.
La nostra professione ci offre un’opportunità straordinaria: non solo vendere prodotti, ma creare un dialogo, influenzare la cultura, lasciare un segno. E se riusciamo a farlo con consapevolezza, equilibrio e rispetto, allora non stiamo solo riflettendo la realtà: stiamo contribuendo a costruirne una nuova.