Una riflessione su come e se la pubblicità debba essere regolamentata per determinati settori.
La pubblicità non è neutrale. Non lo è mai stata.
È una macchina di persuasione. E quando si mette al servizio di prodotti che sappiamo nocivi (alcol, junk food, gioco d’azzardo, sigarette elettroniche travestite da caramelle) il problema non è solo di etica. È di responsabilità. È di scelta. È di direzione culturale.
Perché possiamo raccontarcela finché vogliamo, ma la pubblicità non si limita a vendere. Modella gusti, orienta comportamenti, legittima consumi. E se la usiamo per vestire di cool ciò che ci fa male, stiamo facendo molto di più che promuovere un prodotto: stiamo rendendo accettabile un danno. Lo stiamo normalizzando. Lo stiamo desiderando.
Sia chiaro: non sto invocando la censura. Non è questo il punto.
La questione non è se si può pubblicizzare un prodotto dannoso. La questione è: a che prezzo lo facciamo? E soprattutto: chi paga quel prezzo?
Quando un brand di energy drink targettizza sedicenni con campagne aggressive e adrenalina sintetica, chi è che ci guadagna davvero? E chi ci rimette, in termini di salute, consapevolezza, visione del mondo?
La pubblicità ha un potere che fa paura. Perché sa entrare nelle fragilità, sa manipolare l’urgenza, sa travestire il superfluo da necessario.
Ma se la comunicazione continua a servire ciecamente chi paga di più, senza porsi il problema di che cosa sta vendendo, allora stiamo tradendo il nostro mestiere. Stiamo abdicando alla nostra funzione sociale.
Sì, perché ce l’abbiamo una funzione sociale. Ed è ora di riprendercela.
Il punto non è vietare, ma responsabilizzare.
Regolamentare non significa chiudere la bocca. Significa fissare dei paletti per evitare che il mercato faccia da padrone anche dell’immaginario.
Serve una pubblicità che sappia porsi dei limiti. Che non insegua solo la performance. Che smetta di usare i dati per scovare i più vulnerabili. Che non riduca l’essere umano a un target da monetizzare.
È inevitabile che alcuni prodotti vengano pubblicizzati. Lo capisco. Il mondo non è una favola. Ma questo non significa che dobbiamo continuare a farlo come se niente fosse. C’è modo e modo. C’è tono e tono. C’è scelta e omissione.
Il dilemma, in fondo, è tutto qui: vogliamo continuare a vendere qualsiasi cosa a chiunque, o vogliamo costruire una comunicazione che si prenda cura?
Non è una domanda moralista. È una chiamata al coraggio. Alla disobbedienza creativa. A un marketing che risponde a qualcosa di più alto del brief.
Perché oggi il vero atto rivoluzionario è smettere di dire sempre sì.