La pubblicità su misura che ti conosce meglio di tua madre, la creatività che cerca ossigeno e i consumatori che barattano sè stessi per cosa?
Da quando i brand hanno imparato a parlarci come se fossimo amici di vecchia data, la pubblicità personalizzata è diventata la cifra di una relazione che promette di farci sentire unici. È l’illusione di un abito cucito su misura, dove ogni parola, ogni immagine, ogni offerta si adatta come un guanto ai nostri desideri — o almeno a ciò che gli algoritmi hanno deciso di definire i nostri desideri.
La pubblicità, oggi, non vende più solo prodotti: vende la sensazione di essere capiti. Ci insegue ovunque andiamo, ci intercetta con un messaggio pronto a dirci: “Ehi, lo so cosa ti piace, lo so cosa stai cercando.” E lo fa con una naturalezza inquietante, trasformando la relazione tra persone e brand in un dialogo asimmetrico, in cui chi parla davvero è un software, e chi ascolta si illude di avere voce in capitolo.
Perché è qui che sta il punto: nella promessa di una comunicazione personalizzata, stiamo sacrificando la nostra libertà di scelta sull’altare della rilevanza. Barattiamo la nostra privacy per un like, un’offerta speciale, una notifica push. Ci lasciamo incantare da contenuti che ci parlano di noi, ma che in realtà ci parlano per venderci qualcosa.
Il capitalismo della sorveglianza (Zuboff, 2019) non è più un distopico esercizio teorico: è la realtà di ogni giorno, dove la nostra identità è sezionata, misurata, rivenduta al miglior offerente. E più la pubblicità ci somiglia, più diventa difficile distinguerla da una conversazione autentica. È la fine dell’interruzione pubblicitaria e l’inizio di una nuova forma di persuasione, più sottile e meno visibile.
Ma in questo scenario la creatività è in pericolo. Perché quando tutto è targettizzato, ottimizzato e profilato al millimetro, lo spazio per l’inaspettato si restringe. La creatività nasce dallo scarto, dall’imprevisto, dalla rottura di uno schema. Ma se ogni messaggio è costruito per essere perfettamente allineato a un algoritmo, la creatività rischia di appiattirsi in una sequenza di A/B test senza anima.
È questo il bivio che l’industria pubblicitaria deve affrontare oggi: scegliere se diventare la cinghia di trasmissione di un sistema che riduce le persone a cluster di dati, o alzare la testa e rivendicare il potere di inventare, sorprendere, generare cultura e, sì, vendere, ma senza sacrificare tutto sul piano dell’etica.
Perché, alla fine, la pubblicità serve a vendere. È il suo mestiere. Ma il modo in cui lo facciamo fa la differenza: possiamo vendere rispettando chi sta dall’altra parte, coltivando la fiducia e non solo la conversione. Possiamo vendere con coraggio creativo, senza ridurre le persone a numeri su un cruscotto.
E allora sì, la pubblicità tornerà a essere quella cosa meravigliosa che, oltre a vendere, sa farci sognare, riflettere, cambiare. E, magari, renderci un po’ più consapevoli di quello che siamo disposti a sacrificare per sentirci speciali.