Scrivere pubblicità non è mai un atto neutro

Dall’osservazione alla parola: come il copywriter traduce il mondo in narrazioni condivise.


Il copywriting non è solo l’abilità tecnica di mettere insieme parole persuasive; ma si colloca in uno spazio complesso, dove linguaggio, pensiero e immaginario collettivo si intrecciano in un gioco di segni e significati.

Un copywriter, per dirla con Clifford Geertz (Interpretazione di culture, 1973), legge la cultura come un testo, decodificandone i simboli e restituendoli sotto forma di messaggi che parlano a un pubblico specifico.

Il copywriting non è una tecnica marginale, ma un’attività semiotica e strategica che agisce sull’immaginario collettivo.

Il copywriter come interprete del senso comune

Umberto Eco, nel suo Trattato di semiotica generale (1975), ci ricorda che i segni non sono mai neutri. Ogni parola scelta, ogni immagine evocata è il frutto di un processo di selezione che tiene conto di un contesto culturale specifico. E questo vale anche per il copywriter, il quale non crea messaggi in astratto, ma si muove all’interno di un sistema di codici condivisi che riflettono ciò che Émile Durkheim definiva coscienza collettiva (La divisione del lavoro sociale, 1893).

Prendiamo come esempio il celebre slogan di Apple, “Think Different”. Non si tratta solo di una formula pubblicitaria, ma di un condensato di valori culturali: l’individualismo, l’innovazione, il rifiuto delle convenzioni. Questo messaggio non avrebbe avuto la stessa forza se non avesse fatto eco al contesto sociale degli anni ’90, segnati da una crescente affermazione della creatività come motore di progresso.

Il copywriter, quindi, è un osservatore dello dello spirito del tempo (zeitgeist), che raccoglie frammenti di senso comune e li riassembla in una narrazione capace di risuonare. Come sosteneva Marshall McLuhan in Gli strumenti del comunicare (1964), «il medium è il messaggio», ossia il mezzo di comunicazione utilizzato ha un impatto più significativo sulla società rispetto al contenuto che veicola. Ecco, allora, che il copywriting non è solo un veicolo di contenuti, ma parte integrante del sistema simbolico che contribuisce a modellare il modo in cui una società si percepisce.

Scrivere è pensare: la costruzione culturale della realtà

Per capire il rapporto tra scrittura e pensiero, è utile rifarsi a Berger e Luckmann, che ne La realtà come costruzione sociale (1966) spiegano come il linguaggio non descriva semplicemente il mondo, ma lo costituisca. Quando un copywriter crea uno slogan o un body-copy o quello che è, non si limita a rappresentare un prodotto, ma modella un’intera esperienza culturale attorno a quell’oggetto.

Ad esempio, il linguaggio pubblicitario che associa i SUV al senso di libertà e avventura (pensiamo a campagne come “Go Anywhere” di Jeep) costruisce un immaginario in cui il consumo di certi beni diventa sinonimo di determinati valori. Questa non è un’operazione neutra: ogni parola è una scelta ideologica, come ci ricorda Roland Barthes in Miti d’oggi (1974).

Il copywriting, in questo senso, opera all’intersezione tra semiotica e sociologia: è un atto di traduzione culturale che trasforma desideri e aspirazioni latenti in messaggi espliciti.

La responsabilità del copywriter

Antonio Gramsci, nel delineare la sua teoria dell’egemonia culturale, sottolineava come le idee dominanti di una società non siano imposte con la forza, ma si radichino attraverso un consenso che passa dai linguaggi e dai simboli condivisi. Il copywriter partecipa a questo processo come mediatore tra i bisogni del mercato e i valori del pubblico.

Quando il linguaggio pubblicitario celebra la diversità o promuove la sostenibilità, non si limita a soddisfare un’esigenza commerciale: contribuisce a legittimare un nuovo immaginario collettivo. Tuttavia, il rischio è che queste narrazioni si riducano a miti di consumo, svuotati di autenticità e finalizzati esclusivamente alla vendita.

Come ci ricorda Jean Baudrillard in La società dei consumi (1970), i messaggi pubblicitari non vendono oggetti, ma simulacri: essi creano mondi paralleli in cui il consumo diventa un atto simbolico, carico di significati che spesso trascendono il valore d’uso dei beni stessi.

Il copywriting come forma di pensiero critico

Il copywriting, ben lontano dall’essere una semplice pratica di scrittura, si configura come un’attività intellettuale che richiede capacità di analisi, sintesi e interpretazione. È una forma di pensiero strategico che opera all’interno di un sistema culturale complesso, traducendo i valori e le aspirazioni di una società in messaggi capaci di influenzare e orientare comportamenti.

Per dirla con le parole di Umberto Eco, «un testo è una macchina pigra che chiede al lettore di fare una parte del suo lavoro» (Lector in fabula, 1979). Allo stesso modo, il copywriting è una forma di testo aperto, che invita il pubblico a interpretare, identificarsi, reagire. Non si tratta solo di scrivere bene, ma di pensare bene: comprendere la cultura, decodificarla e restituirla in modo creativo.

Scrivere non è mai un atto neutro. È un modo per riflettere sul mondo e, in alcuni casi, per cambiarlo. E il copywriter, con il suo ruolo di interprete e mediatore, è uno degli artigiani più consapevoli di questo processo.