L’importanza di scegliere tra vivere in una pubblicità ben fatta o in un mondo che possiamo capire (disordinato, contraddittorio, imperfetto. Ma vero).
In pubblicità, come in tante altre cose della vita, c’è un filtro che si attiva ogni volta che confondiamo la realtà aumentata con il futuro, senza chiederci di chi è quel futuro, chi lo decide, chi lo paga. Non è un filtro di Instagram, è un filtro ideologico.
C’è un momento preciso – impercettibile, ma decisivo – in cui la tecnologia smette di apparire come strumento e inizia a comportarsi come ambiente. La realtà aumentata e quella virtuale sono dispositivi narrativi, culturali, politici. E quando entrano nella sfera pubblicitaria, il confine tra esperienza e persuasione si dissolve.
La realtà aumentata è un (relativamente) nuovo modo di costruire il mondo. Attraverso dispositivi e software, trasforma ogni spazio in una narrazione commerciale, in un’esperienza costruita per coinvolgere, trattenere, convertire. Non ti vende più il prodotto: ti mette al centro della sua promessa.
Ogni filtro, ogni ambiente immersivo, ogni layer sovrapposto al mondo visibile è un atto semiotico. Non aggiunge realtà: la riscrive. In questo senso, la pubblicità immersiva non è un’estensione, ma un atto di costruzione simbolica.
Nel passaggio dalla comunicazione alla performance, il prodotto non viene più spiegato: viene esperito. E la narrazione commerciale non si accontenta più di rappresentare la realtà: ora la prefigura.
Se il capitalismo, da sempre, vive di narrazioni, oggi si trova in una fase avanzata: non racconta più sogni, li fa vivere. L’esperienza immersiva diventa merce, ma travestita da libertà sensoriale. È lo stadio pubblicitario dell’iperrealtà, come lo chiama Baudrillard: non vogliamo più vedere il mondo, vogliamo viverlo come ci viene confezionato da un algoritmo – personalizzato, su misura, perfettamente brandizzato.
In tale contesto, la pubblicità immersiva non si limita a veicolare un messaggio: sostituisce il mondo con la sua versione commerciale. Il reale viene progressivamente disinnescato, e le esperienze pubblicitarie diventano esperienze totali, dove ogni aspetto dell’interazione è già previsto, ottimizzato, monetizzato.
Andiamo incontro, così, a un nuovo tipo di organizzazione dello spazio sociale: la città non è più territorio condiviso, ma mosaico di messaggi geolocalizzati, offerte promozionali, realtà aumentate solo per alcuni. Ogni spazio diventa selettivo, ogni interazione è targettizzata. Si dissolve l’esperienza collettiva e si moltiplica quella individuale, atomizzata. Eppure, proprio in questo trionfo della connessione, si fa largo la solitudine.
La realtà aumentata non è un fenomeno neutro, ma espressione avanzata del capitalismo cognitivo. Come suggerisce Maurizio Lazzarato, siamo dentro una nuova “economia dell’attenzione” dove la soggettività è il vero campo di battaglia. La AR/VR, in questo quadro, non si limita a catturare attenzione: la struttura. Orienta i gesti, guida i desideri, predispone comportamenti.
A chi serve tutto questo? Chi lavora per far funzionare il sogno? I server che reggono gli ambienti immersivi non sono eterei: sono infrastrutture reali, alimentate da elettricità, da estrazione mineraria, da manodopera invisibile. I dati raccolti in ogni interazione valgono più dell’oggetto stesso. E mentre una minoranza esperisce la realtà aumentata in alta definizione, una maggioranza lavora per sostenerla, senza vederne i benefici.
La promessa di realtà aumentata, allora, va interrogata. È un’innovazione? Sì, certamente. Ma è anche un meccanismo di consolidamento delle disuguaglianze. Chi può permettersi di “aumentare” la propria esperienza? Chi decide quali contenuti emergono e quali restano ai margini?
Eppure, nel cuore di tutto questo, la pubblicità può ancora essere un gesto poetico, un’azione civile. Può – e deve – riprendersi il diritto di essere scomoda. Di non ridursi a effetto speciale. Ci sono esperienze che già lo dimostrano: campagne che non usano la tecnologia per intrattenere, ma per aprire dibattiti, per includere storie sommerse, per far emergere ciò che la società tende a oscurare. È lì che la comunicazione ritrova un senso.
Una realtà aumentata che interroga, che apre spazi di senso, che restituisce voce alle marginalità: questo è il potenziale più radicale, e più umano, delle tecnologie immersive. Il punto non è rinunciare al filtro, ma spostarlo. Non demonizzare la seduzione, ma dare un senso alla bellezza.
Perché la realtà aumentata diventa davvero reale solo quando inizia a farci dubitare. Quando invece di dire “wow”, ci porta a chiederci: “perché?” “a chi giova?” “che cosa stiamo costruendo, e per chi?”
In fondo, ogni filtro ha due facce: una che mostra e una che nasconde. Sta a noi decidere quale vogliamo attraversare.