Riflessione a cuore aperto su tecnologia e creatività nella pubblicità.
Viviamo nel tempo dell’algoritmo onnipresente. Un tempo in cui le idee si misurano in impression e l’immaginazione si piega alle logiche del CTR. Siamo nell’epoca dell’automazione dei contenuti, della generazione infinita di format, della moltiplicazione seriale delle storie. Eppure, mentre tutto accelera, una domanda resta lì, incollata sul muro della nostra coscienza creativa: la tecnologia potenzia o impoverisce l’immaginazione?
La risposta, come sempre, non è né bianca né nera. Ma ha le sfumature della pelle viva di chi ancora prova a scrivere con le mani sporche di realtà.
La pubblicità è morta, evviva la pubblicità.
C’è stato un tempo in cui la creatività pubblicitaria era l’ultimo baluardo dell’immaginazione nel mondo aziendale. Dove il copywriter era il poeta infiltrato tra i numeri e l’art director un pittore prestato al consumo. Oggi quel mestiere è in crisi non perché manchino gli strumenti, ma perché abbiamo confuso la creatività con la produttività.
La tecnologia ci offre infinite possibilità, ma tende a renderle tutte uguali. Ci consegna un arsenale di strumenti che rischiano di diventare gabbie, se non sappiamo più usarli per pensare. Il pericolo non è l’AI che scrive headline: è il pubblicitario che smette di farlo, affidando tutto al prompt e dismettendo il conflitto creativo con la pagina bianca. È lì che l’immaginazione si impoverisce: non quando delega, ma quando rinuncia.
Tecnologia è potere. Ma per fare cosa?
Diciamolo chiaramente: la tecnologia è una benedizione se usata come estensione, non come sostituzione. È una stampella per l’intuizione, una lente per esplorare ciò che prima era invisibile. Ma se ci limitiamo a usarla per ripetere ciò che già funziona, allora diventa una trappola. Uno specchio che riflette i nostri bias, amplificandoli.
L’innovazione vera non è nel mezzo, ma nel messaggio. E il messaggio ha bisogno di una visione. Di una tensione etica. Di un gesto umano. Perché non ci salveranno i dati, ma le storie che decidiamo di raccontare. Non ci guideranno le automazioni, ma i valori che scegliamo di mettere in campo.
Il mestiere creativo come resistenza.
Chi oggi lavora nella pubblicità ha davanti a sé una scelta. Possiamo diventare fabbricanti di contenuti, replicando format come catene di montaggio digitali. Oppure possiamo tornare a essere artigiani dell’immaginario, cucendo parole e immagini su misura per un’umanità che ha ancora fame di senso.
La tecnologia ci dà superpoteri, ma ci chiede anche super responsabilità. Ci mette nella condizione di raggiungere chiunque, ovunque, in ogni momento. Ma cosa stiamo dicendo, davvero? Che tipo di immaginario stiamo alimentando? Quello del desiderio o quello del bisogno? Quello della speranza o quello dell’ansia?
Verso una creatività aumentata, non sostituita.
L’intelligenza artificiale può generare idee, ma non può scegliere tra il cinismo e la poesia. Il programmatic può decidere a chi mostrare un annuncio, ma non può decidere perché mostrarlo.
Lì sta la differenza tra una creatività automatica e una creatività aumentata. La prima è una scorciatoia. La seconda è una scelta. E scegliere è l’atto più umano che ci sia.