«Chi di speranza vive, disperato muore» è un detto che mi ha sempre affascinato, fin dal primo giorno in cui l’ho sentito; me lo ricordo ancora: lo disse una signora dall’alto di un balcone rivolta a un’altra signora che aspettava sul ciglio della strada che passasse l’autobus.
Di primo acchito può sembrare un modo di dire pessimista, quasi nichilista tanto è definitivo: abbiamo sempre creduto che «finché c’è vita c’è speranza», perché «la speranza è l’ultima a morire» e adesso, invece, viene fuori che «chi di speranza vive, disperato muore». Sembra come se la speranza stessa porti la morte – e, quindi non ci sarebbe scampo.
Io, invece, l’ho sempre visto come un proverbio positivo, proattivo e illuminista. Mi viene naturale metterlo sullo stesso livello semantico del più devoto «aiutati che Dio ti aiuta»: non rimanere immobile a sperare che accada qualcosa, ma adoperati affinché questo accada.
Non mascherare la tua passività da speranza, perché è un abito che le starebbe stretto e rischierebbe di strapparsi al primo passo, lasciandoti con le chiappe al vento. Le chiappe sono sempre le tue.
Sinceramente non so a cosa si riferisse la signora al balcone, non so se stesse spronando la signora sul ciglio della strada a darsi da fare in qualche modo, o se abbia infilato lì quel detto solo per riempire la conversazione. Però mi ha colpito ed è diventato immediatamente un tormentone che mi ronza spesso nel cervello.
Sono passati più di dieci da allora e, ancora oggi, quando sento parlare di speranza mi torna in mente questo detto.
Parafrasando un noto spot degli anni Novanta: la speranza è nulla senza perseveranza.